Saranno 12 le persone detenute nel carcere di Bollate che, dopo il percorso formativo e di orientamento curato da Fondazione Adecco per le Pari Opportunità, accederanno ai colloqui di lavoro e ai tirocini. Obiettivo l’occupazione come strumento del reinserimento sociale e strumento per abbattere la recidiva.
Saper scrivere un curriculum, affrontare un colloquio di lavoro, porsi nella giusta posizione nella ricerca di un’occupazione. Tutte attività importanti che tuttavia in molti fanno fatica ad affrontare. Difficoltà ancora maggiori le devono affrontare persone che magari nel proprio curriculum vitae hanno dei buchi di anni in cui sono stati ristretti in carcere. Ed è proprio a queste persone che si rivolge il progetto #Ripartodame che vede Fondazione Adecco per le Pari Opportunità, Fondazione Alberto e Franco Riva e il Cesen dell’Università Cattolica di Milano in campo per dare una chance a un gruppo di detenuti del Carcere di Bollate con l’obiettivo di facilitare la loro integrazione sociale e il loro inserimento nel tessuto lavorativo.
Una delle novità di questo progetto è l’idea di puntare a favorire l’occupazione all’esterno del carcere «è una strada alternativa ai percorsi interni che a Bollate sono già presenti» spiega Giovanni Rossi, segretario generale di Fondazione Adecco per le Pari Opportunità. Questo percorso alternativo è stato presentato nel corso di un incontro al quale accanto ai promotori hanno partecipato i rappresentanti di imprese e cooperative sociali di diversi settori nei quali le 12 persone che hanno concluso i diversi step del progetto potrebbero essere inserite per un tirocinio.
Il percorso è stato raccontato da Laura Ciardiello di Fondazione Adecco che ha descritto le tappe che hanno portato una quindicina di persone, tutte in articolo 21 (con il permesso di lavorare al di fuori del carcere), a mettersi alla prova «nella selezione non abbiamo voluto sapere nulla sui motivi della loro detenzione, quello che interessava è che fossero persone che “potevano” entrare nel mondo del lavoro», ha sottolineato. Le cinque giornate d’aula sono servite soprattutto per insegnare alcuni skill e a mettere alla prova la volontà di provarci.
Il lavoro, del resto, come è stato sottolineato nel corso dell’incontro è di fondamentale importanza per la sua funzione rieducativa, fa emergere il senso di riscatto e si è dimostrato uno strumento fondamentale nella riduzione della recidiva (torna a delinquere circa il 70% di chi non ha avuto esperienze di lavoro, contro percentuali al di sotto del 10% di chi ha potuto sperimentare percorsi lavorativi durante la detenzione). Oltretutto, se l’inserimento si dimostra efficace chi occupa queste persone si trova davanti lavoratori molto più motivati a riuscire. Non ci si nasconde che se lavorare offre speranze, allo stesso tempo può anche sfociare in delusione. Nel percorso effettuato in carcere si è puntato molto a non creare illusioni.
Terminato il percorso d’aula, che ha previsto anche colloqui simulati, il mese di dicembre è dedicato all’incontro vero e proprio con il mondo del lavoro esterno che dovrebbero sfociare in un tirocinio di tre mesi. «Noi restiamo di supporto», assicura Rossi. «Si ritroveranno in un contesto senza reti e per un certo periodo noi saremo accanto alle persone per favorire l’accompagnamento al lavoro». Rossi sottolinea come uno degli aspetti importanti del progetto sia proprio «il self empowerment, è difficile, ma abbiamo visto come queste persone si sono riattivate anche solo perché c’era qualcuno che credeva in loro».
Il progetto #Ripartodame ha l’obiettivo non solo di far sì che i tirocini si trasformino in occupazione vera e propria, ma «di essere scalato e replicabile anche in altri carceri e contesti. Noi con il supporto scientifico dell’Università Cattolica lo monitoreremo per un anno» continua Rossi, orgoglioso anche dello Sroi (il valore sociale) del progetto calcolato a priori che è di 3,60, cioè per ogni euro investito produce oltre il triplo. «Il nostro obiettivo è far partire i tirocini con l’inizio del 2018 dando a tutti un’opportunità di lavoro e quindi di reinserimento sociale» conclude Rossi.