Un mese fa alcuni ragazzi della Scuola del Fare di Napoli si sono avvicinati ad un libro in un contesto alquanto singolare: una videochiamata con un gruppo di persone detenute del carcere di San Vittore a Milano. Intorno ai tre momenti della trama (l’arrivo, l’incontro e la partenza), sono emerse riflessioni su paura, coraggio, fiducia e sospetto. Partendo da lì, i due gruppi hanno dato vita a uno scambio epistolare, ricco di riflessioni e storie interessanti.
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Tre settimane per rielaborare i significati del testo
Nelle tre settimane successive i due poli hanno lavorato separatamente, ciascuno con i propri educatori. Partendo dalle poesie di Izet Sarajlić, di Seliman Abdel Rahman o da un testo di Alessandro Baricco, hanno riflettuto sul significato dei tre momenti (arrivo, incontro, partenza) e sulle emozioni che li connotano. In ognuno di questi laboratori la discussione ha prodotto dei frutti: brevi racconti immaginari, autobiografie sotto forma di curricula, fumetti, raccolte di foto.
Questi prodotti non sono però rimasti nella cerchia delle mura del carcere o della scuola ma hanno preso il largo e sono arrivati direttamente nelle mani dell’altro gruppo, dando così vita a un vero e proprio scambio epistolare.
Scambi di lettere, scambi di esperienze di vita
Uno degli esercizi su cui entrambi i gruppi si sono cimentati è stato immaginare un incontro con uno straniero. I ragazzi avevano a disposizione solo un incipit (“Bussano alla porta, apro e…”) e il proseguo del racconto era lasciato alla loro fantasia. Alcuni racconti dei gruppi si sono intrecciati, dando vita a scambi di significati interessanti. Ne condividiamo qui ora uno insieme a voi, in cui le due narrazioni sono incatenate una con l’altra (il punto di stacco è dato dal “Ma…”).
Era una calda notte d’agosto, mi rilassavo sul divano quando a un certo punto bussarono alla porta. Ero da solo a casa, come sempre, visto che ho comprato questa villa fuori città. Dopo essermi deciso ad andare ad aprire, notai che stranamente cominciò a fare freddo, ma non ci feci caso perché magari erano i condizionatori troppo potenti. Quando spalancai la porta dinanzi a me non comparve niente, ma avevo la sensazione che qualcosa era entrato. Forse era solo una impressione. Purtroppo non era così, infatti, appena, mi girai vidi una figura alta quanto me incappucciata di nero. Non parlava, non si vedeva cosa c’era sotto quel cappuccio. Insomma, era inquietante.
“Giochi a carte, Jake?” disse la figura in nero.
“Chi sei, e come fai a sapere il mio nome?”, pronunciai molto spaventato.
“In realtà ho molti nomi ma il più famoso e preferito è Morte.”
“Cosa!? Ma allora esisti!”
“Certo. Tutto ha un inizio e una fine ed io sono la fine.”
“Ah, ma allora sei qui per uccidermi?”
“Non esattamente. Avevo intenzione di farti una proposta”, disse la morte mentre si sedeva a capotavola. “Voglio giocare a carte: se vinci ti darò un’altra possibilità; se sfortunatamente perdi… beh, morirai.”
“Perché fai questo? Chi sono io per meritare una seconda opportunità?”
“Sarò sincero con te, Jake, mi annoio, la mia intera esistenza mi annoia, perciò a volte faccio questi giochi.”
“Giochi?” disse stranito Jake.
“Si, mai sentito parlare di “coma”? Comunque basta parlare: do io le carte.”
Non mi ricordo precisamente a che pensavo, ma una cosa era certa: questa era una partita che non potevo rifiutare. Giocammo per più di trenta minuti. Non parlavo molto. L’unica cosa era che quando perdevo una manche mi sentivo sempre più stanco.
Alla finale vinsi. La morte subito si alzò dicendo: “Beh, dopotutto una promessa è una promessa”.
Detto questo mi svegliai di soprassalto sopra un letto di ospedale. Parlai con i medici e mi dissero che ero entrato in coma per colpa di un incidente stradale avvenuto più di un mese prima. Nei giorni successivi pensai molto all’accaduto. Francamente non so se fosse vero. L’unica cosa che so è che ho cambiato totalmente stile di vita. Ho viaggiato molto, ho fatto del bene… Diciamo che non ho sprecato la mia seconda opportunità.
Ma…
Non passò molto tempo dopo il risveglio dal coma. Ricordo che nevicava e io ero perso a guardare fuori dalla finestra il mondo che si dipingeva di bianco. Una voce dietro di me mi strappò dai miei pensieri e mi catapultò di nuovo nella realtà. Iniziai a girarmi faticosamente, come se nella direzione da cui proveniva quella splendida voce ci fosse un’energia che mi impediva di muovermi. Seduta sulla vecchia poltrona di mio padre trovai una donna, bella da mozzare il fiato. Lei mi guardò senza dire una parola, come se già sapesse la domanda che stavo per farle.
“E tu chi sei?”
Lei mi sorrise e in quel momento pensai di non avere mai visto niente di così bello. Quasi non mi accorsi della risposta.
“Nel tuo mondo sono conosciuta con molti nomi, ma il più comune di tutti è VITA. Sono qui perché tu hai qualcosa che mi appartiene” mi disse.
Mi sforzai di non dare a vedere la mia agitazione. Non mi riuscii molto bene. Iniziai a farneticare dicendo: “Io non ho rubato niente. Non sono un ladro. Cosa vuole la VITA da me?”.
Lei si alzò dalla poltrona, elegante come poche cose nel mondo sanno essere, ma il sorriso di poco prima era sparito dal suo volto.
“Qualche tempo fa hai fatto la conoscenza di mio fratello e ti ha donato qualcosa che non gli apparteneva. Io sono qui per riprendermi quel dono.”
Calma e silenzio. Mi si avvicinò e con un bacio mi portò via la seconda chance che mi aveva donato la morte… Una cosa mi lasciò perplesso: mentre mi baciava, piangeva.